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Poi dice conoſco io pur queſte note,
Di tal io n’ho tante vedute e lette:
Finger queſto Medoro ella ſi puote
Forſè ch’a me queſto cognome mette:
Con tali opinion dal ver remote
Vſando ſraude e ſé medeſmo, ſtette
Ne la ſperanza il mal contento Orlando
Che ſi ſeppe a ſé ſteffo ir procacciando
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Ma ſempre piú raccende e piú rinuoua
Quato ſpenger piú cerca il rio ſoſpetto
Come l’incauto augel che ſi ritroua
In ragna o in viſco hauer dato di petto
Quanto piú batte l’ale e piú ſi proua
Di diſbrigar piú vi ſi lega ſtretto
Orlando viene oue s’ incurua il monte
A guiſa d’arco in ſu la chiara ſonte.
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Haueano in ſu l’entrata il luogo adorno
Coi piedi ſtorti hedere e viti erranti:
Quiui ſoleano al piú cocente giorno
Stare abbracciati i duo felici amanti
V haueano i nomi lor dentro e d’intorno
Piú che in altro de i luoghi circòſtanti
Scritti qual con carbone e qual co geffo
E qual con punte di coltelli impreſſo.
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Il meſto Conte a pie quiui diſceſe
E vide in ſu l’entrata de la grotta
Parole assai, che di ſua man diſtefe
Medoro hauea, ch pareá ſcritte allhotta,
Del gran piacer che ne la grotta preſe
Queſta ſententia in verſi hauea ridotta
Che foſſe eulta in ſuo Hguaggio io pgfo
Et era ne la noſtra tale il ſenſo.
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Liete piante, verdi herbe, limpide acque
Spelúca opaca, e di ſredde ombre grata:
Doue la bella Angelica che nacque
Di Galafron, da molti in vano amata,
Speſſo ne le mie braccia nuda giacque:
De la commodita che qui m’e data,
Io pouero Medor ricompenfarui
D’altro nò poſſo che d’ognihor lodarui.
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E di pregare ogni Signore Amate
E Caualieri, e Damigelle, e ognuna
Perſona, o paeſana, o viandante,
Che qui ſua volontá meni o Fortuna:
Ch’ali’ herbe all’Gbr all’atro al rio alle piate
Dica, bèigno habbiate, e ſole, e lúa,
Et de le nymphe il choro, che pueggia
Che no gduca a voi paſtor mai greggia.
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Era ſcritto in Arabico, che’l Conte
Intendea coſi ben come latino,
Fra molte lingue e molte, e’ hauea pronte
Prontiſſima hauea quella il Paladino,
E gli ſchiuo piú volte, e danni, & onte
Che ſi trouo tra il popul Saracino,
Ma nò ſi vati ſé giá n’hebbe ſrutto
Ch’ u dano hor n’ ha, ch può ſcontargli il tutto
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Tre volte, e quattro, e fei, leſſe lo ſcritto
Quello inſelice, e pur cercando in vano
Che non vi foſſe quel che v’era ſcritto
E ſempre lo vedea piú chiaro e piano,
Et ogni volta in mezo il petto afflitto
Stringerſi il cor ſentia con ſredda mano,
Rimaſe al ſin con gliocchi e con la méte
Fiffi nel ſaſſo, al ſaſſo indifferente.