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Mal saprebbesi per noi contrastare a chi venisse a dirci che le Lettere dell’Ariosto vanno prive di quella leggiadría che pur trovasi nelle innumerevoli di tanti altri, a lui di gran lunga inferiori, le quali costituiscono questo ramo ricchissimo della nostra letteratura. Del che piuttosto che andar cercando una scusa, additeremo la cagione che ci è parso d’avere indovinata, studiando i costumi o le abitudini dell’autore: cioè che del commercio epistolare mai egli non fecesi, come molti fanno, nè una professione nè una delizia, e alle scritture di tal fatta pose mano soltanto per sopperire alle necessità della civile convivenza. Quindi quella sua tanta brevità e quasi secchezza, quel toccare unicamente de’ fatti, senz’alcuna ampliazione nè ornato di parole o concetti, benchè scrivendo a principi culti o della scienza amatori; come il decimo Leone, il marchese o la marchesana di Mantova, e il principe erede d’Urbino. Tornerebbe per ciò vano il cercare le concinnità del letterato, dov’egli far non volle altro officio, se non se d’uomo sociale. Ma perchè ogni effetto che da’ grandi ingegni procede, ha in sè qualcosa di più rilevato e ancora di più proficuo che dai mediocri mai non possa aspettarsi; così da queste Lettere, oltre alle testimonianze consuete sulle condizioni dello scrittore e del secolo, potranno raccogliersi esempi di trattazione nei gravi oggetti disinvolta, e nei tenui e domestici dignitosa: onde abbiamo per fermo che le poche fin qui venute alla luce, e tutte raccolte, per quanto ci è noto, in questo libro, crescer debbano il desiderio di quelle che da lunghi anni rimangono, come altrove accennavasi (tom. I, pag. 193), inesplorate e nascoste.


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