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atto quinto. — sc. ii. 495

Son per aver di quelle candidissime
Membra, del dolce spiro sì odorifero!
Veronese.Sapeva ben, sapeva ben io misera,
Che porresti a salvarmi troppo indugio.
Ecco colà duo vecchi: l’un dev’essere,
S’io non fallo, il mal uomo del nostr’ospite.
Claudio.Che ospite?
Veronese.                    Conoscete voi quel Bartolo?
Nol viddi mai, ma credo sia un diavolo.
Claudio.Che vi facevi in casa? Ben conoscolo.
E chi anco v’era? (O dolce mia Flaminia,
Quando più sarò teco!)
Veronese.                                          V’era Ippolita,
Ed èvvi ancora. Così ella non fossevi,1
A benefizio suo!
Claudio.                          Oh, che qui2 nacquero
E’ miei sospetti! (O cara mia Flaminia!)
Veronese.Pregovi mi salviate. Non è Bartolo
Uno de’ due che là oltre si mostrano?
Claudio.Lasciami me’ veder: gli è messer Lazzaro
Con Bonifacio. Vien meco allo studio
Mio, là dove te ne starai tacita-
mente fin tanto ch’altro vedrò sorgere.
Ma io vorrei pur veder ed intendere
Ch’abbia esser questo; e perchè Bonifacio
Abbia quest’uomo alloggiato, e non Bartolo,
Come fra essi avevano già ordine.
To’3 questa chiave, Veronese; e gettati
A man diritta per questo viottolo,
E poi a man diritta ancora torciti,
Fin che darai del capo in certo picciolo
Uscio: quell’uscio è l’uscio del mio studio.
Vattene dunque, e qui4 tacita aspettami.
Di qui potrò bene ascoltare e intendere
Quel che diranno, senza che mi veggano.




  1. L’autografo pone qui un verso di specie insolila: «Et evvi ancor. Così non vi fusse ella.»
  2. G. A., ec.: «Oh da che.»
  3. Contro il metro, l’autografo: «Piglia.»
  4. Per, Ivi. Caso contrario, e tuttavía congenere all’osservato da noi nella nota 2, pag. 261.