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atto quinto. — sc. ii. 493

Diliberato aveva il territorio
Umano abbandonar.
Veronese.                                 Forse partitasi
Era di questa vita?
Claudio.                                   Peggio; e andavami
Al porto, per trovarvi burchio o sandalo,
Che fuor del mondo, s’egli era possibile,
Mi conducesse. Ma così di subito
Che vi son gionto, veggo messer Lazzaro,
Che smonta con la moglie e con Flaminia
Ed una fante; e, perchè non voglio essere
Conosciuto dal vecchio, cerco ascondermi
Più nella cappa che mi sia possibile;
Perchè, non so s’ tu ’l sai, ei m’ha mal animo.
Or quale a un tratto io divenissi, pensalo,
O Veronese. La gelosia avevami
Sì stretto il cor, che mi venía lo spasimo.
Io non stei molto, ch’egli s’avviarono
Diritti ver’ la porta di san Paolo;
E entrati dentro, il lor cammin distesero
A questa parte: ed io sempre gli seguito
Dalla lunga con gli occhi; e in breve veggogli
Entrar in casa qui di Bonifacio;
Là dove appunto meglio non potevano
Per me ridursi: in casa del mio ospite,
Ov’io vivo a dozzina, s’alloggiorono.
Gli è questa casa: vedila tu?
Veronese.                                             Veggola:
Ma di paura mi distruggo: datemi
Ov’io m’asconda: chieggovel di grazia.1
Claudio.Era sull’uscio Eurialo e Bonifacio:
Ma mi volgo sì subito, che scorgere
Non mi pô alcun, qui a destra, ov’è il mio studio,
Ch’entra su lo stradello, ed áprol subito;
Ed entrato, di qui vo nella camera,
Onde per un pertugio si può scernere
Che nell’intrata della casa facciasi.
Mentre m’avvolgo per casa, già egli erano
Saliti sopra, e fêr picciolo indugio,


  1. A. G., e le stampe: «Questa è la casa: vedila tu? Ver. Veggola. Oh Dio, che di paura tutta struggomi! Entriamo in casa; chieggolvi di grazia.»
ariosto.Op. min. — 2. 42