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atto terzo. — sc. iv, v. | 465 |
Sia venuto, e ch’io vegga che rimedio
Ci vuol pigliare. Io non era per dirvene
Parola prima; ma da lui partendomi,
Chè smontai in terra per più tosto giongere,
Mi pregò ch’io venissi a farvi intendere
Da sua parte, che vuol tosto tosto1 essere
Con esso voi. Vi do da pensar termine
Alla sua gionta.
Accursio. Va in buon’ora. Pongati
Dio ’l vero in mente, e ti faccia conoscere
Quanto a torto ci dài questa calunnia.
Riccio.Ditemi,2 è in questa terra messer Claudio?
Eurialo.Ci era stamane, ed anco vi debbe essere.
SCENA V.
EURIALO, ACCURSIO.
Eurialo.Or siamo usciti pur fuor di pericolo.
Accursio.Usciti! e come?
Eurialo. Non ci è più pericolo.
Pericolo si chiama ove sta l’animo
Fra speranza e timor sospeso in dubio:
Ma questo è manifesto mal, certissimo
Danno; quest’è rovina inevitabile.
Oimè, io son morto!
Accursio. I morti non favellano.
Eurialo.Ajutami, per dio.
Accursio. Nè dar rimedio
Nè ajuto si può a’ morti.
Eurialo. Ora apparecchiami,
Dunque, il sepolcro, e prima in terra ascondemi,
Che qui giunga mio padre e messer Lazzaro;
Prima ch’io vegga, con mio tanto carico,
Con mio perpetuo scorno e vituperio,
Che cacciata di casa mi sia Ippolita
A guisa d’una fante infame e publica.
Accursio.Se vorrete lasciar voi stesso perdere
Vilmente, siate certo che anche Ippolita
Voi perderete; ma se per difendervi