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atto terzo. — sc. ii. | 457 |
Dunque, che al Rusco o che a Biagiuol da l’Abbaco1
Tu nol dicessi? Ma dove, brutto asino,
T’ho parlato io di strani o di domestici?
Pistone.Mi credéa di far bene, e che molto obbligo
Voi me n’avessi aver, perchè ho fatt’opera
Che restarà.2
Eurialo. Rubaldo! che ti venghino
Cento cancari! Adunque ha differita la
Sua andata?
Pistone. Sì.
Eurialo. Non si parte oggi?
Pistone. Al credere
Mio, ne domani ancor, nè fin che a Padoa
Non vadan elle; chè far lor delibera
Carezze e onor, nè perdonar a spendere.
Eurialo.Ma egli ora dov’è?
Pistone. Tornammo a rendere
La bestia. Io gli trassi i stivali, e misegli
Le pianelle: egli da quella via andòssene
In piazza, a far provvisïon del vivere;
Ed a me disse:— Torna a casa, e portami
Il canestro e la sporta grande, e vientene
Al Castel,3 ch’io sarò fra i pizzicagnoli.—
Eurialo.Dunque, fa come t’ha detto; che rompere
Ti possa il collo!
Pistone. Io mel ruppi il medesimo
Giorno ch’io venni a star con voi.
Eurialo. Se prendere
Mi fai due braccia di querciuol...
Pistone. Che diavolo!
Non ne saprò uscir io, senza cacciarmene
Voi col baston, come i cani si cacciano?
Eurialo.Non è questo poltron se non superbia.
Per dio, per dio! Deh, che farò? Deh, misero
Me! poichè questo vecchio viene a rompermi
Tanto piacer, anzi tutto a voltarlomi
In pena e in doglia! A lui sarà difficile