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prologo di g. ariosto. 425

E ad uno argomento tutti andavano:
Ch’era a lor stato un precettor medesimo,
E ch’ambi avéan seguiti i stessi studii;
E che il tempo non meno all’un propizio
Era stato ch’all’altro, perchè varia
Non molto era l’età. Questo allegavano;
Ma cantavano al sordo. Conoscevasi
Ei d’ingegno e di forze assai più debole,
Che non bisogna a simil essercizio.
Altro ci vuol ch’aver visto grammatica,
Ed apparati gli accenti e le sillabe,
Studiato la Poetica d’Orazio,
E divorati quanti libri stampansi!
È bisogno che ’l Ciel per quel s’adoperi,
Ch’abbia da scriver versi e ornare i pulpiti
Di bei suggetti. Ed oltre ancor avvidesi
Come difficil fusse ed impossibile
Indovinar ch’abbia voluto fingere
Il primo autor dell’opra, per concludere
Il cominciato oggetto; e persüasesi
Che più facil saría farn’una d’integro.
Altre ragioni ancora l’avvertivano
A non ridursi sotto il contubernio
Delli poeti, quando par che siano
In questa nostra età com’un ludibrio.
Non basta che sen’ passin senza premio
Le lor fatiche e lor lunghe vigilie,
Chè lor sono attaccate mille infamie.
Dicon che li poeti sono increduli
Delle cose divine, perchè parlano
Talor di Giove e talora di Venere:
Ma tai calunniatori poco pescano
Al fondo. Ora non vô su tal materia
Entrar più addentro, nè far il filosofo,
Quando appena son atto a dir un prologo.
Dicon piacersi ancor col bue e con l’asino.
Io non intendo ben questo proverbio:1
Ma non è mal che d’ogni cosa facciasi


  1. Che qui, secondo noi, ha senso osceno. Questo proverbio è, di sua natura, applicabile a diversi propositi; cioè sempre che l’uomo faccia uso di cose diverse ad un fine medesimo. Può rivedersi il Negromante, pag. 384, ver. 3.

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