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atto terzo. — sc. ii. | 311 |
Che gli è accaduto?
Corbolo. Può dir, patron, d’essere
Un’altra volta nato. Quasi morto lo
Hanno alcuni ghiottoni: pur, Dio grazia,
Il male...
Ilario. Ha dunque mal?
Corbolo. Non di pericolo.
Ilario.Che pazzía è stata la sua di venirsene
In villa, s’egli ha male, o grande o picciolo?
Corbolo.L’andare a questo mal suo non può nuocere.
Ilario.Come no?
Corbolo. Non, vi dico; anzi più agile
Ne fia.
Ilario. Dimmi: è ferito?
Corbolo. Sì, e difficile-
mente potrà guarir; non già che sanguini
La piaga...
Ilario. Oimè, io son morto!
Corbolo. Ma intendetemi
Dove.
Ilario. Di’.
Corbolo. Non nel capo, non negli omeri,
Non nel petto o ne’ fianchi.
Ilario. Dove? spacciala.
Pur ha mal!
Corbolo. N’ha pur troppo, e rincrescevole.
Ilario.Esser non può ch’egli non stia gravissimo.
Corbolo.Anzi troppo leggiero.
Ilario. Oh, tu mi strazii!
Ha male, non ha mal: chi ti può intendere?
Corbolo.Ve ’l dirò.
Ilario. Di’, in mal punto.
Corbolo. Udite.
Ilario. Seguita.
Corbolo.Non è ferito nel corpo.
Ilario. Nell’anima
Dunque?
Corbolo. È ferito in una cosa simile.
Flavio con una brigata di giovani
Si trovò iersera a cena; e a me, andandovi,
Disse che, come cinque ore sonavano,
Andassi a tôrlo con lume. Ma (rendere