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atto quinto. — sc. vii. 281

Ch’io stava in parte onde potevo intenderti. —
E credo veramente che appiattato si
Era tra il fieno nella stalla.
Damonio.                                             Ah misero
Me! che farò? che farò? ahi lasso! Lievati
Di qui, gaglioffa. Io ti voglio un dì svellere
Dalle radici cotesta maledica
Lingua. Altrettanto mi duol che Pasifilo
Lo sappia. Chi ben confidar desidera
Un suo segreto, lo dica a Pasifilo,
E lasci far a lui: lo saprà il populo
Solamente, e chi ha orecchie: eccettüandone
Questi dua soli, altri non l’ha da intendere.
Or se ne parla per la terra pubblica-
mente. Sarà Cleandro il primo. Erostrato
Il secondo sarà stato ad intenderlo.
Oh bella, oh ricca dote ed onorevole,
Che gli s’è apparecchiata! Quando, misero!
Quando sperar potrò di maritarnela?1
Misero più che la stessa miseria!
Dio buono, fate almen, che non sia favola
Quel ch’ella mi dicéa testè; che ignobile
Non è, come s’ha finto, questo giovene,
E che è figliuol d’un cittadin ricchissimo
E de’ primi che sien nella sua patria.
Quando a gran pezzo nè ricco nè nobile
Fosse come ella dice, pur che povero
Non fusse in tutto o villano, di grazia
Avrei che fosse sua moglie, e faréiglila
Sposare incontinente. Ma mi dubito,
Che per ridurla a suo disegno, finto si
Abbia Dulippo queste ciance. Vogliolo
Esaminare un poco: mi dà l’animo
Che al suo parlar conoscerò se istoria
È questa vera, o finzione e favola.
Ma quel ch’esce di là non è Pasifilo?



  1. Manca questo verso nell’edizione del Pitteri, e in tutte quelle ch’ei dice d’aver riscontrate. Ma il senso (ove egli pure senti mancanza) lo richiede: l’edizione del Pezzana ce lo presenta; e vi è conforme questo passo della Commedia già scritta in prosa dall’autore: O che dote se le apparecchia! Quando la mariterò io mai più? Misero me più che la miseria istessa veramente!. — (Molini.) — Questo verso, giusta le apparenze, fu fabbricato, ma non certo infelicemente, dallo stesso Pezzana.