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atto quarto. — sc. viii. | 267 |
SCENA VIII.
FILOGONO, FERRARESE, LIZIO.
Filogono.Chi mi dê1 dare ajuto? a chi ricorrere
Debbo, poi che costui ch’io m’ho da tenero
Fanciullo in casa allevato, e auto l’ho
In loco di figliuol, di non cognoscermi
Si finge? E voi, uomo da ben, che toltomi
Per guida avevo e scôrta, e persuadevomi
D’aver fatto in perpetuo un’amicizia,
Con questo servo ribaldo accordato vi
Sête; e, senza guardare alla miseria
In che io mi truovo, vecchio, solo e povero
Forestiero, o temere Iddio che giudice
Giusto ogni cosa intende, avete subito
Testificato che costui è Erostrato!
E falsamente, chè nè tutti gli uomini
Potríano far, nè tutta la potenzia
Della natura, in centinai di secoli,2
Ch’altri mai che Dulippo potesse essere.
Lizio.Se in questa terra gli altri testimonii
Son così fatti, facilmente debbono
I litiganti provar ciò che vogliono.
Ferrarese.O gentiluomo, poi che questo giovene
Arrivò in questa terra, o di Sicilia
O d’altro luogo, sempre dirgli Erostrato
Ho udito, e ch’è figliuolo d’un Filogono,
Mercatante ricchissimo in Catanea.
Ch’egli sia quello o no, lascio che giudichi
Chi di lui prima abbia avuto notizia,
Che venisse a Ferrara. Chi testifica
Quel che crede esser ver, nè appresso gli uomini
Nè presso Dio condennar per falsario
Si puote. Ho detto quel ch’odo dir pubblica-
mente, e credevo che fusse verissimo.
Filogono.Dunque, costui ch’io diedi al mio carissimo