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atto terzo. — sc. iii, iv. 157

Andiamo in casa.
Trappola.                              Non mi gravò spendere
Giammai, purchè le merci il pregio vagliano.


SCENA IV.

STAMMA, LUCRAMO.


Stamma.Che li calzari1 miei non rimanessino,
Padrone, in mano al ciabattajo, avendoci
Noi da partir sì per tempo. Ricordati,
Tosto che Furbo torni, di commettergli
O che li vada esso a pigliar, o díami
Cinque quattrini, chè tanto d’avermeli
Racconci domanda egli.
Lucramo.                                        Non mi rompere
Il capo, bestia.
Stamma.                          Io son sempre una bestia
Ch’io gli domando. Non è verso i poveri
Servi un di lui più tenace: farebbeci
Morir di fame, se ’l timor di perderci
Non lo tenesse, o il non poter dell’opera
Nostra servirsi, quando infermi o deboli
Ci facesse il disagio. A noi poco utile
Ritorna che si sia fatta abbondanzia
Di grano o d’altre cose, chè ’l pan muffido,
Pien di loglio e di veccia e tutto semola
Ci fa mangiare; e cerca se v’è gocciola
Di vino tristo al mondo, se v’è putrido
Pesce, carnaccia che i beccari vendere
Non abbiano potuto, e per pochissimo
Prezzo le piglia l’avaraccio, e pasceci
Di tai carogne, che schivo ne avrebbono
I lupi e i corvi: e poi, non è un più prodigo
Di lui nel darci pugni e calci, e romperci
Col bastone le spalle, e farci livide
Con lo staffile, e spesso sangue piovere.
Misera me! quest’altre un dì pur sperano,
O mutando padrone o liberandosi,


  1. Ediz. Giol.: calciari; e appresso: zabattaio, che il Pezzana mutò arbitrariamente in ciabattino.
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