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atto primo. — sc. v. 133

Mi rallegrai, ch’udî che gentiluomini
E la più parte conti si chiamavano,
E l’un con l’altro parlando, si davano
Titolo di signor. Fra me medesimo
Dicevo: — Nell’altre città suol esserne
Uno, e nessuno in molte: or, se tal numero
N’è qui, ci debbon senza dubbio correre
Per le strade i danari, e l’oro piovere: —
Ma non ci fui stato tre dì, che d’essere
Venuto mi pentî; che, fuor che titoli
E vanti e fumi, ostentazioni e favole,
Ci so veder poc’altro di magnifico.
Tutto ciò c’hanno, in adornarsi spendono,
Polirsi, profumarsi come femmine,
E pascer mule e paggi, che lor trottino
Tutto dì dietro, mentre essi avvolgendosi
Di qua e di là, le vie e le piazze scorreno,
Più che ignuna civetta dimenandosi,
E facendo più gesti che una scimia.
Par lor, che col vestir di drappo ed abiti
Galanti, foggie e pompe,1 far si debbiano
Stimar dagli altri quel ch’essi si stimano,
E generosi e splendidi e grandi uomini:
E veramente sono come scatole
Nuove, di fuor dipinte e dentro vacue.
Forse crederà alcuno, che se prodighi
Sono in ornar sè stessi, che poi facciano
Alle lor donne usar la parsimonia;
E ch’elle stando in casa e affaticandosi
E industrïando, cerchino rimettere
Quel che i mariti o che i figli consumano
In questa ambizïon sciocca e ridicula.
Anzi, mogli e mariti truovi unanimi,
E figlie e madri, al danno e al precipizio
Delle lor case. Lasciamo ir che vogliano
Le donne nôve veste e nôve cuffie,
Come anco l’altre in altre terre vogliono;
Non troveresti in questa terra femmina,
Della quale il marito non sia artefice,
Che sappia mutar passo. Uscir si sdegnano


  1. Le stampe del Giolito e del Bortoli, ma per errore: poppe.
ariosto.Op. min. — 2. 12