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più, fra gli antichi, somiglia al Parini nell’intento di correggere, castigando, i molli costumi specialmente de’ gentiluomini dell’età e della patria sua. È satira anch’essa acerba l’aver finto in Sibari la scena di fatti coi quali egli volle, per più segni, ritrarci il vivere della sua Ferrara. Il desiderio stesso del moralizzare traevalo a quegli eccessi che dirsi possono ultradrammatici, ma che più gravi appariscono nei sentimentali d’un tempo: io dico, alla prolissità ed alla dissertazione. Ma chi vorrebbe contuttociò cancellare certi un po’ lunghi monologhi, certe verbose repliche, che ritardano bensì il corso della favola, ma per la finezza e giustezza dell’osservazione son tali da sentirne invidia lo stesso Machiavelli? Tutti quasi i caratteri, allorchè nostri sono, ossia non tolti (come per lo più i giovani e i servi) dal teatro greco e latino, hanno in sè verità inemendabile, sicchè pajono ricopiati in presenza della vivente natura. Guardate, non che altro, quelle figure, come i pittori dicono, sfumate delle poche matrone e fantesche, dell’unico frate domenicano; poi l’altre più espresse del giovane Camillo, e di quel Bartolo che della tradita amicizia cerca scusa nell’amore soverchio verso il figliuolo. Sono composti di elementi diversi, ma tuttavía non repugnanti, e perciò veritieri, quelli di Lucramo nella Cassaria, di Jachelino nel Negromante; semplicissimo e, al mio credere, sopra tutti perfetto quel della Lena, nella Commedia di questo nome. Peccato che a una tal donna non si facesse la sua parte nella vena inesauribile delle bugíe, che tutta intera al servo Corbolo vien prodigata!
In quanto allo stile, troppo è chiaro il progresso che l’autore avea fatto dopo il divulgamento a lui mal gradito (Vedi la Lettera XXVI) delle Commedie in prosa; troppo ad ognuno è sensibile quella spontaneità di verso elegantissima, e sempre intesa a nascondere il suo proprio artifizio; quel fraseggiare sì eletto, e pur lontano egualmente dall’idiotaggine e dalla rettorica: per il che molte volte ci nacque in cuore il desiderio che gl’Italiani mai non avessero abbandonato la forma metrica nelle loro teatrali composizioni. E dove pur venga il giorno ch’essi ravveggansi del già commesso errore, come di chi nella scultura lasciasse i marmi per le cere colorale e pei drappi, non avrebbero miglior modello da proporsi di queste cinque Commedie; felici prove d’un intelletto per più rispetti prodigioso; capolavori di un’arte che se allora potè dirsi fanciulla, non mancherà forse chi voglia oggidì chiamarla decrepita.