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atto quarto. — sc. v, vi | 95 |
Sanese. Quanto più vuoi tu che te lo ridica? io sono quel Filogono ch’io t’ho detto: e di che ti maravigli?1
Filogono. Che un uom di tanta prosonzione si ritrovi. Nè tu, nè maggior di te potrebbe fare che tu fussi quel che son io; ribaldo, aggiuntatore che tu sei!
Dalio. Patirò io che tu dica villania al padre del padron mio? Se non ti levi da questo uscio, ti caccerò questo schidone nella panza.2 — Guai a te, se Erostrato qui si trovava! Torna in casa, signore, e lascia gracchiare questo uccellaccio nella strada, tanto che si crepi.
SCENA VI.
FILOGONO, LICO, FERRARESE.
Filogono. Che ti pare. Lico mio, di queste cose?
Lico. Non mi piacque mai questo nome Ferrara; chè sono assai peggiori gli effetti, che non è la nominanza.
Ferrarese. Hai torto a dire male de la terra nostra. Questi che vi fanno ingiuria, non sono Ferraresi, per quanto veda3 al loro idioma.
Lico. Tutti n’avete colpa, e più gli officiali vostri, che comportano questa barreria nella sua terra.
Ferrarese. Che sanno gli officiali di queste trame? credi tu che intendano ogni cosa?
Lico. Anzi credo che intendano pochissime, e mal volentieri, dove guadagno non vedano molto. Doverebbono aprir gli occhi, ed avere le orecchie più patenti che non hanno le porte l’osterie.
Filogono. Taci, bestia; parla de’ fatti tuoi.
Lico. Ho paura, se Iddio non ci ajuta, che amendua pareremo come tu hai detto.4
Filogono. Che faremo?
Lico. Loderei che cercassimo tanto, che ritrovassimo Erostrato.
Ferrarese. Io vi farò compagnia per tutto. Andaremo a le Scole prima; se non è quivi, lo ritrovaremo alla piazza.