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306 | sonetti. |
Sonetto XXVIII.
Se senza fin son le cagion ch’io v’ami
E sempre di voi pensi e in voi sospiri,
Come volete, oimè! ch’io mi ritiri,
4E senza fin d’esser con voi non brami?
Son la fronte, le ciglia e quei legami
Del mio côr, aurei crini, e quei zaffiri
De’ be’ vostri occhi, e lor soavi giri,
8Donna, per trarmi a voi tutti esca ed ami.
Son di coralli, perle, avorio e latte,
Di che fùr labbra, denti, seno e gola,
11Alle forme degli Angeli ritratte;
Son del gir, dello star, d’ogni parola,
D’ogni sguardo soave, in somma, fatte
14Le reti, onde a intricarsi il mio côr vola.
Sonetto XXIX.1
Lassi, piangiamo, oimè! chè l’empia morte
N’ha crudelmente svelta una più santa,
Una più amica, una più dolce pianta
4Che mai nascesse: ahi nostra trista sorte!
Ahi! del Ciel dure leggi, inique e torte,
Per cui sì verde in sul fiorir si schianta
Sì gentil ramo; e ben preda altra e tanta
8Non rest’all’ore sì fugaci e corte.
Or poi che ’l nostro segretario antico
In cielo ha l’alma e le membra sotterra,
11Morte, io non temo più le tue fere arme.
Per costui m’era ’l viver fatto amico;
Per costui sol temea l’aspra tua guerra:
14Or che tolto me l’hai, che puo’ tu farme?
- ↑ Questo Sonetto è copiato dal Codice num. 360, cl. VII, della Libreria Magliabechiana. Fu pubblicato per la prima volta nella nostra edizione del 1822, in-8. Sembra fatto per la morte immatura di Pandolfo Ariosti cugino dell’autore, e tanto suo amico e confidente, che egli, al dire del Fornari e del Baruffaldi, quasi ne volle morire d’angoscia: sì smisuratamente l’amava. Vedi anche la Satira VII, v. 217 e seg. — (Molini.)