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258 | capitolo terzo. |
132Da quel parlar via più che assenzo amaro,
Rispose: — Tosto ch’avrò morto o preso
(Come spero) Aramon, chè non mi deve
135Quel che m’ha il re donato, esser conteso;
Farò a ciascun di voi veder in breve,
Che la mia gente al par d’ogn’altra vale
138Ad ogni assalto, o faticoso o lieve. —
Moltiplicavan le parole, e tale
Era il remor, lo strepito, che uscire
141Se ne vedea una rissa capitale.
Ma non li lascia il re tanto seguire;
Prima il suo Franco, indi il Spagnuol riprende
144Con l’Aleman del temerario ardire.
— Come ben fa chi sua intenzion difende
Da biasmo altrui (dicea), così molto erra
147Chi per la sua lodare ogn’altra offende.
E chi vuol di voi dir che la sua terra
Prevaglia a tutte l’altre, è nell’errore
150Di questo Inglese, e il torto ha della guerra.
Degli altri il detto d’Obizzo è ’l migliore,
Di sostener ch’Italia sua di loda
153A nessun’altra parte è inferïore.
Or, quanto alla battaglia, mai non s’oda,
Poi che ad Obizzo n’ho fatto promessa,
156Che la promessa non sia ferma e soda.
Egli fu il primo a chiederla, e concessa
A lui l’ho volentieri; e non mi pento,
159Nè meglio altrove potría averla messa. —
Il re fece a lor tal ragionamento,
Sì per ragion, sì perchè assai non fôra
162Di dar la pugna a Carbilan contento:
Chè se fortuna, che temere ognora
Si deve, ad Aramon volge la guancia,
165È meglio che un estran sia preso o môra,
Che Carbilan, o di nazion di Francia
Altro guerrier, per non dar la sentenza
168L’inglese esser miglior della sua lancia.
Nel vincer non facea tal differenza;
Pur che un guerrier, sia di che gente voglia,
171Spegnesse a quell’altier tanta credenza.
Quanto più il re si sforza che si toglia
Carbilan dall’impresa, egli più duro