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capitolo terzo. 257

D’alcun guerriero incominciò l’eterna
93Stimulatrice invidia della gente:
     Non quella che s’alloggia in la caverna
Di alpestra valle, e in compagnia dell’orse,
96Dove sol mai non entra nè lucerna;
     Che da mangiar le serpi il muso tôrse,
Allora che, chiamata da Minerva,
99Dell’infelice Aglauro il petto morse;1
     Ma la gentil che fra nobil caterva
Di donne e cavalieri, ecceder brama
102Le laudi e le virtù che un altro osserva.
     E prima ad un baron di molta fama
Entra nel côr, che del delfin di Vienna
105Era fratello e Carbilan si chiama;
     Che morto, l’anno innanzi, in ripa a Senna
Avea il conte d’Olanda, e rotti e sparsi
108Fiamminghi e Brabantini e quei d’Ardenna.
     Stimò costui gran scorno e ingiuria farsi
A Francia, quando innanzi a’ guerrier sui
111I guerrieri d’Italia eran comparsi:
     E pregò il re che non desse in altrui,
Che nelle mani sue, quella battaglia,
114O ad altri di nazion soggetta a lui;
     E che per certo in vestir piastra e maglia
A’ gran bisogni, fuor che la francesca,
117Altra gente non dee creder che vaglia.
     A un capitan di fantería tedesca,
Che si ritrova quivi, tal parola
120Soffrendo, par che a gran disnor riesca:
     E similmente a questo detto vola
La mosca sopra il naso d’Agenorre,
123Gran condottier di compagnía spagnuola.
     Rispondendo ambedui, che se, per porre
Centra Aramon, si deve cavaliero
126Della miglior d’ogni nazione tôrre;
     Ciascun per sè si proferiva al vero
Paragone dell’arme, a mostrar chiaro
129Che di sua gente esser dovea il guerriero.
     Obizzo, dell’onor d’Italia avaro
E del suo proprio, e quinci e quindi offeso


  1. Vedi Ovidio, Metamorph., lib. II.