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254 capitolo secondo.

L’accrebbe ad ogni passo, ed accresce anco;
27Tal ch’io ne vo non pur incurvo e chino,
     Non pur io me ne sento afflitto e stanco,
Ma se di più sola una dramma leve
30Giunta mi fia, verrò subito manco.
     La nave son, ch’assai più che non deve
Piena e grave, sen va per troppo carco
33Nel fondo, onde mai più non si rileve.
     Son quell’oltra il dover sempre teso arco,
Che per rompermi sto, non per ferire,
36Se di tirar l’arcier non è più parco.
     Mêta è al dolor quanto si può patire;
Onde ogni poca alterazion che faccia,
39Lo muta in spasmo, e ne fa l’uom morire.
     Stolto sarò, quando io perisca e taccia
Sotto il gran peso intollerando e vasto;
42Si ch’io dirò, prima che oppresso giaccia,
     C’ho fatto oltre il poter, e a più non basto.




CAPITOLO TERZO.




     1Canterò l’arme, canterò gli affanni
D’amor, che un cavalier sostenne gravi,
3Peregrinando in terra e ’n mar molt’anni.
     Voi l’usato favore, occhi soavi,
Date all’impresa; voi che del mio ingegno,
6Occhi miei belli, avete ambe le chiavi.
     Altri vada a Parnaso, ch’ora i’ vegno,
Dolci occhi, a voi; nè chieder altra aita
9A’ versi miei, se non da voi, disegno.
     Già la guerra il terzo anno era seguita


  1. Questa composizione è il principio di un poema in terza rima, che l’autore si proponeva di scrivere in lode della casa d’Este, prendendo per suo eroe un Obizzo da Este, che fu ai tempi di Filippo il Bello, e combattè negli eserciti francesi contro le armi inglesi, e vinse in singolar certame Aramone di Nerbolanda (Northumberland), celebre campione. Ma il poeta, o poco contento del soggetto, o giudicando la terza rima meno atta dell’ottava a tal genere di poesia, lo abbandonò, e si rivolse a scrivere il suo Orlando Furioso. — (Molini.)