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satira quarta. | 187 |
Ma se l’uomo è sì ricco, che sta ad agio
Di quel che la natura contentarse
246Dovría, se fren pone al desir malvagio;
Che non digiuni quando vorría trarse
L’ingorda fame, ed abbia fuoco e tetto,
249Se dal freddo dal sol vuol ripararse;
Nè gli convenga andare a piè, se astretto
È di mutar paese; ed abbia in casa
252Chi la mensa apparecchi e acconci il letto;
Che mi può dare o mezza o tutta rasa
La testa, più di questo? Ci è misura1
255Di quanto pôn capir tutte le vasa.
Convenevole è ancor che s’abbia cura
Dell’onor suo; ma tal, che non divenga
258Ambizïone, e passi ogni misura.
Il vero onore è ch’uom da ben ti tenga
Ciascuno, e che tu sia; che non essendo,
261Forza è che la bugía tosto si spenga.
Che cavallero o conte o reverendo
Il popolo te chiami, io non t’onoro
264Se meglio in te, che il titol, non comprendo.
Che gloria ti è vestir di seta e d’oro,
E quando in piazza appari nella chiesa,
267Ti si levi il cappuccio il popol soro;
Poi dica dietro: — Ecco chi diede presa
Per danari a’ Francesi Porta Giove2
270Che il suo signor gli avea data in difesa? —
Quante collane, quante cappe nove
Per dignità si comprano, che sono
273Pubblici vituperi in Roma e altrove!
Vestir di romagnuolo ed esser buono,
Al vestir d’oro ed aver nota o macchia3
- ↑ Qui sembra da intendersi per quantità proporzionata. Con che verrebbe in qualche modo a scusarsi la ripetizione della rima la quale potrebbe dar luogo a censura nel v. 258.
- ↑ Porta Giove (poi Giovia) era una delle porte di Milano. Intende l’autore di quel castellano di Lodovico Sforza, che vendette il castello a Luigi XII re di Francia. (Guicciardini, lib. IV) — (Molini.)
- ↑ Le moderne edizioni (eccettuata quella del Rolli) leggono questi due versi come segue:
Io mi contento; ed a chi vuol, con macchia
Di barería, l’oro e la seta dono.
Chi abbia inventata questa lezione, non saprei dirlo. L’autografo in questo luogo non ha correzione alcuna, ed è stato seguito nelle prime edizioni. — (Molini.)