Pagina:Ariosto, Ludovico – Orlando furioso, Vol. III, 1928 – BEIC 1739118.djvu/292

286 canto


140
     La moglie Argia che stava appresso ascosa,
poi che lo vide nel suo error caduto,
saltò fuora gridando: — Ah degna cosa
che io veggo di dottor saggio tenuto! —
Trovato in sí mal’opra e vizïosa,
pensa se rosso far si deve e muto.
O terra, acciò ti si gettassi dentro,
perché allor non t’apristi insino al centro?

141
     La donna in suo discarco, et in vergogna
d’Anselmo, il capo gl’intronò di gridi,
dicendo: — Come te punir bisogna
di quel che far con sí vil uom ti vidi,
se per seguir quel che natura agogna,
me, vinta a’ prieghi del mio amante, uccidi?
ch’era bello e gentile; e un dono tale
mi fe’, ch’a quel nulla il palagio vale.

142
     S’io ti parvi esser degna d’una morte,
conosci che ne sei degno di cento:
e ben ch’in questo loco io sia sí forte,
ch’io possa di te fare il mio talento;
pure io non vo’ pigliar di peggior sorte
altra vendetta del tuo fallimento.
Di par l’avere e ’l dar, marito, poni;
fa, com’io a te, che tu a me ancor perdoni:

143
     e sia la pace e sia l’accordo fatto,
ch’ogni passato error vada in oblio;
né ch’in parole io possa mai né in atto
ricordarti il tuo error, né a me tu il mio. —
Il marito ne parve aver buon patto,
né dimostrossi al perdonar restio.
Cosí a pace e concordia ritornaro,
e sempre poi fu l’uno all’altro caro. —