Pagina:Ariosto, Ludovico – Orlando furioso, Vol. III, 1928 – BEIC 1739118.djvu/258

252 canto


4
     Che d’alcune dirò belle e gran donne
ch’a bellezza, a virtú de fidi amanti,
a lunga servitú, piú che colonne
io veggo dure, immobili e constanti?
Veggo venir poi l’Avarizia, e ponne
far sí, che par che subito le incanti:
in un dí, senza amor (chi fia che ’l creda?)
a un vecchio, a un brutto, a un mostro le dá in preda.

5
     Non è senza cagion s’io me ne doglio:
intendami chi può, che m’intend’io.
Né però di proposito mi toglio,
né la materia del mio canto oblio;
ma non piú a quel c’ho detto, adattar voglio,
ch’a quel ch’io v’ho da dire, il parlar mio.
Or torniamo a contar del paladino
ch’ad assaggiare il vaso fu vicino.

6
     Io vi dicea ch’alquanto pensar volle,
prima ch’ai labri il vaso s’appressasse.
Pensò, e poi disse: — Ben sarebbe folle
chi quel che non vorria trovar, cercasse.
Mia donna è donna, et ogni donna è molle:
lascián star mia credenza come stasse.
Sin qui m’ha il creder mio giovato, e giova:
che poss’io megliorar per farne prova?

7
     Potria poco giovare e nuocer molto;
che ’l tentar qualche volta Idio disdegna.
Non so s’in questo io mi sia saggio o stolto;
ma non vo’ piú saper, che mi convegna.
Or questo vin dinanzi mi sia tolto:
sete non n’ho, né vo’ che me ne vegna;
che tal certezza ha Dio piú proibita,
ch’al primo padre l’arbor de la vita.