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canto ventesimoquarto 247


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     Per debolezza piú non potea gire;
sí che fermossi appresso una fontana.
Non sa che far né che si debba dire
per aiutarlo la donzella umana.
Sol di disagio lo vede morire;
che quindi è troppo ogni cittá lontana,
dove in quel punto al medico ricorra,
che per pietade o premio gli soccorra.

77
     Ella non sa, se non invan dolersi,
chiamar fortuna e il cielo empio e crudele.
— Perché, ahi lassa! (dicea) non mi sommersi
quando levai ne l’Oceán le vele? —
Zerbin che i languidi occhi ha in lei conversi,
sente piú doglia ch’ella si querele,
che de la passïon tenace e forte
che l’ha condutto omai vicino a morte.

78
     — Cosí, cor mio, vogliate (le diceva),
dopo ch’io sarò morto, amarmi ancora,
come solo il lasciarvi è che m’aggreva
qui senza guida, e non giá perch’io mora:
che se in sicura parte m’accadeva
finir de la mia vita l’ultima ora,
lieto e contento e fortunato a pieno
morto sarei, poi ch’io vi moro in seno.

79
     Ma poi che ’l mio destino iniquo e duro
vol ch’io vi lasci, e non so in man di cui;
per questa bocca e per questi occhi giuro,
per queste chiome onde allacciato fui,
che disperato nel profondo oscuro
vo de lo ’nferno, onde il pensar di vui
ch’abbia cosí lasciata, assai piú ria
sará d’ogn’altra pena che vi sia. —