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sestodecimo 355


20
     Non so, Signor, se piú vi ricordiate
di questo Saracin tanto sicuro,
che morte le sue genti avea lasciate
tra il secondo riparo e ’l primo muro,
da la rapace fiamma devorate,
che non fu mai spettacolo piú oscuro.
Dissi ch’entrò d’un salto ne la terra
sopra la fossa che la cinge e serra.

21
     Quando fu noto il Saracino atroce
all’arme istrane, alla scagliosa pelle,
lá dove i vecchi e ’l popul men feroce
tendean l’orecchie a tutte le novelle,
levossi un pianto, un grido, un’alta voce,
con un batter di man ch’andò alle stelle;
e chi poté fuggir non vi rimase,
per serrarsi ne’ templi e ne le case.

22
     Ma questo a pochi il brando rio conciede,
ch’intorno ruota il Saracin robusto.
Qui fa restar con mezza gamba un piede,
lá fa un capo sbalzar lungi dal busto;
l’un tagliare a traverso se gli vede,
dal capo all’anche un altro fender giusto:
e di tanti ch’uccide, fere e caccia,
non se gli vede alcun segnare in faccia.

23
     Quel che la tigre de l’armento imbelle
ne’ campi ircani o lá vicino al Gange,
o ’l lupo de le capre e de l’agnelle
nel monte che Tifeo sotto si frange;
quivi il crudel pagan facea di quelle
non dirò squadre, non dirò falange,
ma vulgo e populazzo voglio dire,
degno, prima che nasca, di morire.