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ottavo 157


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     Dicea: — Fortuna, che piú a far ti resta
acciò di me ti sazii e ti disfami?
che dar ti posso omai piú, se non questa
misera vita? ma tu non la brami;
ch’ora a trarla del mar sei stata presta,
quando potea finir suoi giorni grami:
perché ti parve di voler piú ancora
vedermi tormentar prima ch’io muora.

41
     Ma che mi possi nuocere non veggio,
piú di quel che sin qui nociuto m’hai.
Per te cacciata son del real seggio,
dove piú ritornar non spero mai:
ho perduto l’onor, ch’è stato peggio;
che, se ben con effetto io non peccai,
io do però materia ch’ognun dica,
ch’essendo vagabonda, io sia impudica.

42
     Ch’aver può donna al mondo piú di buono,
a cui la castitá levata sia?
Mi nuoce, ahimè! ch’io son giovane, e sono
tenuta bella, o sia vero o bugia.
Giá non ringrazio il ciel di questo dono;
che di qui nasce ogni ruina mia:
morto per questo fu Argalia mio frate,
che poco gli giovâr l’arme incantate:

43
     per questo il re di Tartaria Agricane
disfece il genitor mio Galafrone,
ch’in India, del Cataio era gran Cane;
onde io son giunta a tal condizïone,
che muto albergo da sera a dimane.
Se l’aver, se l’onor, se le persone
m’hai tolto, e fatto il mal che far mi puoi,
a che piú doglia anco serbar mi vuoi?