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iv - capitoli | 69 |
III
Firenze invoca la guarigione del suo «Lauro» (Lorenzo duca d’Urbino), che un grave morbo minaccia di uccidere, come di li a poco accadeva (1519).
Ne la stagion che ’l bel tempo rimena,
di mia man posi un ramuscel di Lauro
a mezo colle, in una piaggia amena,
che di bianco, d’azur, vermiglio ed auro
5fioriva sempre, e sempre il sol scopriva
o fusse all’Indo o fusse al lito mauro.
Quivi traendo or per erbosa riva,
or rorando con man la tepida onda,
or rimovendo la gleba nativa,
10or riponendo piú lieta e feconda,
fei sì con studio e con assidua cura
che ’l Lauro ebbe radice e nuova fronda.
Fu sì benigna a’ miei desir Natura
che la tenera verga crescer vidi,
15e divenir solida pianta e dura.
Dolci ricetti, solitari e fidi,
mi fûr queste ombre, ove sfogar potei
sicura il cor con amorosi gridi.
Vener, lasciando i templi citerei,
20e li altari e le vittime e li odori
di Gnido e di Amatunte e de’ sabei,
sovente con le Grazie in lieti cori
vi danzò intorno, e per li rami in tanto
salian scherzando i pargoletti Amori.
23Spesso Diana con le ninfe a canto
l’arbuscel suavissimo prepose
alle selve d’Eurota e d’Erimanto.
E queste ed altre dèe sotto l’ombrose
frondi, mentre in piacer stavano e in festa,
30benediron tra lor chi il ramo pose.