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iv - capitoli 61

     Ma piangi e grida piú ch’ogn’altra gente,
tu che abitasti sotto il iusto regno,
60rimasta al suo partir trista e dolente.
     Ché Morte orrenda col suo ferro indegno,
s’occise quella, a te fece una piaga,
di che molt’anni restaratti il segno.
     Non eri forsi del tuo mal presaga;
65ma se ben pensi, pur perduta hai quella,
che sí fu in terra di ben farti vaga,
     abitatrice in ciel fatta novella,
lassando in terra la sua fragil spoglia,
di sue virtude e piú onorata e bella,
     70sí che di noi, non del suo ben ci doglia;
che il spirto in ciel da le sue membra sciolto
di ritornar qua giú non ha piú voglia.
     Ver è che pur di nui l’incresce molto,
ch’ancor l’usata sua pietá riserba,
75né Morte il popul suo dal cuor gli ha tolto.
     Ma nostra doglia mal si disacerba
pensando che sua vita è giunta al fine,
non giá matura ancor, ma quasi in erba.
     Qual man crudel che fra pungenti spine
80schianta la rosa ancor non ben fiorita,
Morte spiccò da quella testa un crine.
     Quest’ora da Dio in ciel fu stabilita,
ché degno di costei non era il mondo,
anzi lá su d’averla seco unita.
     85O di virtude albergo alto e giocondo,
debb’io forsi narrar la tua eccellenzia,
a cui me stesso col pensar confondo?
     Ché l’infinita e summa Providenzia
degna ti reputò de la sua corte,
90piú per iusticia assai che per clemenzia;
     e per tirarti alle sideree porte
(mandati prima a te gli anonci suoi)
calò dal ciel la tremebonda Morte.