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42 ii - sonetti

XXX

Piange il male che tormenta la sua donna.

     Giorno a me sol piú che la notte oscuro,
piú del solito agli altri puro e bianco,
stan gli altri in festa, in gioia ed io, giá stanco
4di lacrimar, gli occhi gonfiati atturo,
     per la mia donna, che d’acerbo e duro
mal è premuta ed ogni membro ha stanco;
tanto gli arde la febre, il petto e il fianco,
8mercé di Prometeo malvagio e duro;
     qual, volendo giovar al seme umano,
de la sfera celeste rapí il foco,
11onde Giove adirato per lo ingano
     che gli avea fatto, ste’ pensoso un poco,
poi fece segno con la destra mano
14ai mali che scendesser a ’sto loco.

XXXI

Meglio tacere che dilettar altrui del suo martirio.

     Se con speranza di mercé perduti
ho i miglior anni in vergar tanti fogli,
e vergando dipingervi i cordogli
4che per mirar alte bellezze ho avuti;
     e se fin qui non li so far sí arguti
che l’opra lor cor ad amarmi invogli;
non ho da attender piú che ne germogli
8nuovo valor ch’in questa etá m’aiuti.
     Dunque, è meglio il tacer, donne, che ’l dire
poi che de’ versi miei non piglio altr’uso,
11che dilettar altrui del mio martíre.
     Se voi Falare sète, io mi v’escuso,
ché non voglio esser quel che, per udire
14dolce doler, fu nel suo toro chiuso.