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38 ii - sonetti

XXII

Sará sdegnato da lei perché troppo umile?

     Quando muovo le luci a mirar voi,
la forma che nel cor m’impresse Amore,
io mi sento aggiacciar dentro e di fuore
4al primo lampeggiar de’ raggi suoi.
     Alle nobil manere affisso poi,
alle rare virtuti, al gran valore,
ragionarmi pian piano odo nel core:
8— Quanto hai ben collocato i pensier tuoi! —
     Di che l’anima avampa, poi che degna
a tanta impresa par ch’Amor la chiami;
11cosí in un loco or giaccio, or foco regna.
     Ma la paura sua gelata insegna
vi pon piú spesso, e dice: — Perché l’ami,
14che di sí basso amante si disdegna? —

XXIII

A Dio, perché lo sottragga, pentito, all’inferno.

     Come creder debbo io che tu in ciel oda,
Signor benigno, i miei non caldi prieghi,
se, gridando la lingua che mi sleghi,
4tu vedi quanto il cor nel laccio goda?
     Tu che ’l vero conosci, me ne snoda,
e non mirar ch’ogni mio senso il nieghi;
ma prima il fa’ che di me carco, pieghi
8Caron’ il legno alla dannata proda.
     Iscusi l’error mio, Signor eterno,
l’usanza ria, che par che sí mi copra
11gli occhi che ’l ben dal mal poco discerno.
     L’aver pietá d’un cor pentito, anco opra
è di mortal; sol trarlo da l’inferno,
14mal grado suo, puoi tu, Signor, di sopra.