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ii - sonetti | 35 |
XVI
Non è colpa sua se non può servirla quanto e come vorrebbe.
Deh! voless’io quel che voler devrei,
deh! serviss’io quant’è il servir accetto,
deh! Madonna, l’andar fuss’ interdetto,
4dove non va la speme, ai desir miei;
io son ben certo che non languirei
di quel colpo mortal, ch’in mezo ’l petto,
non mi guardando, Amor mi diede, e stretto
8da le catene sue giá non serei.
So quel ch’io posso e so quel che far deggio,
ma piú che giusta elezione, il mio
11fiero destino ho da imputar, s’io fallo.
Ben vi vuo’ raccordar ch’ogni cavallo
non corre sempre per spronar, e veggio,
14per punger troppo, alcun farsi restio.
XVII
Gli occhi di lei lo inebriano di dolcezza; ma se da lei s’allontana...
Occhi miei belli, mentre ch’i’ vi miro,
per dolcezza inefabil ch’io ne sento,
vola, come falcon c’ha seco il vento,
4la memoria da me d’ogni martíro;
e tosto che da voi le luci giro,
amaricato resto in tal tormento,
che, s’ebbi mai piacer, non lo ramento;
8ne va il ricordo col primier sospiro.
Non sarei di vedervi giá sí vago,
s’io sentissi giovar, come la vista,
11l’aver di voi nel cor sempre l’imago.
Invidia è ben se ’l guardar mio vi attrista;
e tanto piú che quello ond’io m’appago,
14nulla a voi perde ed a me tanto acquista.