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ii - sonetti | 31 |
VIII
Teme che il suo pensiero si disperda in un incendio.
Del mio pensier, che cosí veggio audace,
timor freddo com’angue il cor m’assale;
di lino e cera egli s’ha fatto l’ale,
4disposte a liquefarsi ad ogni face.
E quelle, del desir fatto seguace,
spiega per l’aria e temerario sale,
e duolmi ch’a ragion poco ne cale
8che devria ostarli e sel comporta e tace.
Per gran vaghezza d’un celeste lume
temo non poggi sí, ch’arrivi in loco
11dove s’incenda e torni senza piume.
Seranno, oimè! le mie lacrime poco
per soccorrergli poi, quando né fiume
14né tutto il mar potrá smorzar quel foco.
IX
Non si duole di aver perduto la sua libertá.
La rete fu di queste fila d’oro
in che ’l mio pensier vago intricò l’ale,
e queste ciglia l’arco, i sguardi il strale,
4il feritor questi begli occhi fôro.
Io son ferito, io son prigion per loro,
la piaga in mezo ’l core aspra e mortale,
la prigion forte; e pur in tanto male,
8e chi ferimmi e chi mi prese adoro.
Per la dolce cagion del languir mio
o del morir, se potrá tanto ’l duolo,
11languendo godo, e di morir disio;
pur ch’ella, non sappiendo il piacer ch’io
del languir m’abbia o del morir, d’un solo
14sospir mi degni o d’altro affetto pio.