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liriche apocrife 293

l’iniqua mia matrigna e’ l padre avaro,
che annoverati due fiate il gregge al giorno,
questa i capretti e quegli
i mansueti agnelli,
20quand’io di mandra i’ levo, e quando ’i torno,
che giunto son a lei veloce e lieve,
ov’ella in grembo lieta mi riceve.

     Quivi allor, io, d’ogni altra cura sciolto,
l’un braccio al col le cingo,
25sí che la man le scherza in seno ascosa;
con l’altra il suo bel fianco palpo e stringo,
e lei che alzando dolcemente il volto
su la mia destra spalla il capo posa,
e ’n le braccia mi chiude
30sovra ’l cubito ignude,
bacio ne li occhi e ’n la bocca amorosa,
e con parole poi ch’Amor m’inspira,
cosí le dico; ella m’ascolta e mira:

     — Ginevra mia, dolce mio ben, che sola,
35ov’io sia, in poggio o’ n riva,
mi stai nel cor; oggi è la quarta estate,
poi che, ballando al crotalo e alla piva,
vincesti il speglio alle nozze d’Iola,
di che l’Alba ne pianse giá piú fiate:
40tu fanciulletta allora
eri, ed io tal ch’ancora
quasi non sapea gir alla cittate;
possa morir or qui, se a me non sei
cara vie piú che l’alma e gli occhi miei. —

     45Cosí dico io. Ella poi tutta lieta
risponde sospirando:
— Deh non t’incresca amar, Selvaggio mio,
che, poi ch’in cetra e sampogna cantando
vincesti il capro al natal di Dameta,
50onde Montan di duol quasi morio,
tosto n’andrá ’l quart’anno,
s’al contar non m’inganno,