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che si dee rivolgere a lui solo, perché egli séguiti di acarczzare le persone degne. Ma parmi di far ciò con la autoritá di quella non nien graziosa che tremenda memoria, i cui virili avedimenti dicevano in su l’altrui viso i veri meriti e i veri demeriti, parendoli che un cotal modo di procedere infiammasse i buoni a la perseveranza del bene e che rimovesse i rei da la frequenza del male. Si che io posso sicuramente dire che il nostro e signore e iddio forbirá col braccio de la modestia vostia qualunche ruggine fusse per indurirsi ne le menti di coloro che son dedicati a la guardia de la sua alta persona e a la ubbidienza de la sua gran fortuna. Insomma io non voglio mai piú dire di avere avuta sorte pessima con seco, da che voi pur ce l’avete ottima. Ma come può essere che la domestica fratellanza, che la mia fede inviolabile ebbe col suo glorioso padre, non sia stata degna che un che mi è cognato, uomo certamente atto da meritare il suo soldo, abbia luogo tra i piú minimi che mangiano il pane del suo stipendio? Io, signor Lucantonio, son per sempre riverirlo, per sempre iubilare de le sue felicitá e per sempre celebrargli il nome; ma per scrivergli non mai. E ciò sará grato a certi ribaldi, che, per paura che io non venga da lui, scoprendo i lor demeriti, me gli mettono in continua disgrazia, non si accorgendo ch’io son quello che mi fo beffe del mondo. Ora io non vi raccomando messer Bartolomeo Giordano, nipote del conte di Montelabate e imbasciadore d’Urbino, perché bisogni raccomandarvi un che tuttavia sperò in voi e che di continuo fu vostro, ma per pagare parte d’un debito ch’io tengo con le sue gran cortesie. Di Vinezia, [febbraio 1541?].