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palpitante core sollecitala di arriuare doue mi credeua che foste; la mia mente astratta ne la ricordanza di uoi, ui si receua dinanzi a gli occhi in quella effigie generosa, con cui ui lascia a lo illustre gouerno de le genti che in campo rimasero uedoue del Magno Ginuanni de Medici (i). Altro che l’opera «bene scritta e ben puntata», che aveva vagheggiata l’A.! E non si tratta giá d’un caso isolato, da noi scelto a disegno; ma codesta gragnuola di spropositi continua egualmente fitta per tutte le pagine del volume. E ora ci si imbatte in un «sette» che è invece «séte»; ora in un «robba» per «rabbia»; ora in un «anni», quando invece IVA. aveva scritto «animi»; ora in un «par ben che», che poi non è altro che «per lo che» ; ora in un «esser fede accioché», adoperato per «desser fede a ciò che» (dativo e non congiunzione); ora si veggono splendere delle «faville», laddove si tratta della forma verbale «favelline»; ora un «furto» è diventato un semplice «fatto»; non una ma parecchie volte comparisce un messer «Demetrio», la cui presenza non si riuscirebbe a spiegare, se non si trattasse del nome comune «demerito»; né infine manca un «Bonifacio da darmi», che per converso era nativo di «Narni». E, nell’olTrire al lettore un cosi vario mazzolino, non abbiamo fatto se non cogliere qualche fiore dalle prime quattro o cinque lettere. Peggio ancora, poi, quando chi legge (e conseguentemente un nuovo editore) è costretto, per ricavare un senso plausibile da un periodo, a integrare, a furia di congetture, qualche parola o frase, se non a dirittura una riga intera, saltata via nel comporre, oppure a interpetrare veri e propri logogrifi. P. e.: ... e tostò che io me ne senta caldo caldo, uo tormi tale, iscorpacciata de lo hendecastlabo Cardinesco, che ne uerra pietá a le elegie, & a i distichi latini, non che a gli esamentri & a i pentramentri uolgari mi par mille anni di esser dorto, solo per confabulare con il suo per tratto huc, & huc, & usque, & usque. Titllanes uasti pelagi tintigine sub morsis digitis, & c. peroche stando ne i soliti panni ho piu paura del subdo subdo reddo reddo, che sua Signoria ha beccato suso in Catullo, che non hanno contadini del uisibilium, & inuisibilium : il quale gli sciorina adosso il biscantare il credo del prete. Hor ueniamo a lo io, non so se ne lo battezziistrammotto, o sonetto; peroche nel pizzicare del sonetto, e de lo strammotto, non lo chiamo grottesca hermafrodita, per non far torcere il grifo (1) Sono le prime righe della lettera a monsignor da la Barba dell’ 11 giugno 1538 (ediz. del 1547, p. 37: nostra ediz., 1, 31).