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son taverna e bordello de chi gli eredita, chiamando savi coloro che sanno ben dare come ben tórre, né meno spendere che guadagnare, facendo le fica sugli occhi a la Morte con le dita degli inchiostri, aiutati e favoriti dal marchese del Vasto, la cui Eccellenza aspetta di vedere con che fatti e con quali parole risponderete a questa.

Di Vinezia, il io d’aprile 1538.

CCCXXXVII

AL SIGNOR MARCHESE DEL GUASTO

Invia il principio dell ’Angelica. Mentre ch’io mi vi scuso del troppo avere indugiato a ringraziarvi del dono dei cento scudi e de la cortesia de le lettre, vi mando il principio d’ Angelica, a voi intitolata, come anco a voi intitolai quello di Marfisa. E del mio cominciarvi ogni di una opra, non ve ne fornendo mai veruna, datene la colpa ai vostri gradi, i quali, con il moto dei lor continui salti, mi confondono si, che, volendovi celebrare, rimango nel modo che resta il pittore, quando la instabilitá del prencipe, che egli vorria pur ritrare, non gli lascia tórre il contorno degli occhi né il profilo del naso. Ecco Cesare, che, parendogli poco l’aver commesso su le spalle del vostro saputo valore il peso di tutto il suo essercito, ci agiugne il governo di quel Milano, che buon per chi il desidera, se fusse men bello o piú lontano, benché sempre guardaste e governaste cotale Stato. Ma ella è pur grande la felicitá del marchese, poiché la fortuna, accumulando i suoi beni con le dote concessegli da la natura, stupida ne la divinitá de la sua persona, ne la gioventú dei suoi anni e nei miracoli de le’ sue virtú, vói che la pompa l’adorni, che la degnitá l’onori e che il pregio l’essalti. E, acciò nulla manchi, il cielo, da cui ha favore,