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CCCXXXVI

AL CAVALIERE C. La liberalitá è propria dei cavalieri ; l’avarizia, dei signori. Io non so perché io me vi dica in un tratto cavaliere e signore, sendo proprio dei cavalieri la liberalitá e dei signori l’avarizia; onde i due titoli si mirano in guercio, impuntandosi fra la lingua, che gli rimescola nel proferirgli. Talch’io vado ritenuto a dirvi l’uno e l’altro insieme, e faccio il debito a farlo, poiché inverso di me sempre vi portaste da signore e non mai da cavaliere, e pur séte fattura del chiaro Antonio da Leva, le cortesie del quale, se ben non avea bisogno di esser vantato, mi sono state piú magnanime che quelle dei re. Gran cosa che in campo chiuso si vegga tutto il di uomini arrischiar la vita per acquistarsi credito, e chi può perpetuarsi senza pericolo e senza disconcio, non se ne dá punto cura, sopportando, per indorar le case, che se gli sdori la fama. Sapete a quel che si somiglia un cappellaccio, che, in foggia d’asino, va carico degli scudi, che gli sono piú a core che l’anima? a la testa d’un lupo appiccata sopra la porta d’un villano, la quale è guardata per esser il capo d’una bestiaccia grande. Adunque, allarghisi la mano, procacciandosi grado di lode cavalieresca, e non voce di miseria signorile; ché, tenendola stretta, i nomi, svaligiati dei cognomi, si rimangono passeggiando da la tavola a la camera e da la camera a la stalla, dando notizia dei suoi portamenti a famigli e a cuochi, parendogli un bel che il vedersi sberettar dai loro inchini. Odino questa gli spilorci; odanla i mecanici. Un contadino di Arquato, il quale non sapea ciò che si fossi memoria, vòlse lasciar cento ducati al padron de’ la chiesa, perché il suo corpo si mettesse ne la sepoltura del Petrarca. A onta tua, Generositá! a la tua barba, Gloria ! Dice l’altrui prodigalitá che i denari, che si risparagnono,