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Signoria viva in eterno ne la maniera che ella sa e vòle: che, a la fine, le fiamme de le ricchezze e i fumi de le degnitá inteneriscono il corpo e accecano l’anima.

Di Vinezia, il 15 di agosto 1538.

CDIX

AL MEDESIMO

Commosso nel ricevere una lettera del Cesano, rievoca i bei tempi di Giovanni dei Medici, l’ingratitudine di Clemente settimo, l’ambizione del Cardinal Carata e del Giberti. Ma è lieto che la vita della corte papale non gli abbia inaridito il cuore. Egli è, fratello, tanto incarnato ne l’animo e ne l’anima il bene che io vi voglio, che, ogni volta ch’io riveggo Marc’Antonio vostro, mi sento distruggere da le dolcezze di quello amore, che preme voi nel vedervi inanzi cotale alievo. Io pigliai la lettra, che mi scrivete, tutto tremante ne la tenerezza che move i cori, nei quali la sinceritá de la bontade ha stampate le figure degli amici. E, perché egli è il ritratto e l’essempio de le intenzioni e de le maniere vostre, parendomi vedervi in presenza e sentirvi in parole, non potei leggerne riga; onde con gli occhi impregnati da la rugiada de l’affizzione me gli rivolsi, ritraendone non pure gli spiriti Cesani, ma il suono de le voci e l’attitudine dei gesti ancora. E, mentre favellai con l’accortezza del nobile giovane, la mia mente e il mio pensiero mi fece mangiare e parlare e dormire con esso voi e in Roma e in quel campo, dove solevamo intertenere il nostro e signore e compagno Giovanni dei Medeci. Ma che non aviamo noi veduto da che noi non ci vedemmo ! Che casi non ha essercitati la fortuna sopra il capo di tanti nostri conoscenti! Con che fine ha finito Clemente, mentre la bontá di Dio mi ha salvato e guidato! No, che la corte non meritava ch’io mi chiamassi sua creatura. Ben si sa che ella non era degna di