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CCI.XXXVIII A MESSER MARCANTONIO DA URBINO Gode che si sia tolto dal servizio della corte papale, e lo esorta a entrare in quella della duchessa di Urbino. Io, fratello, non veggo andar mai alcun dei miei amici a starsi a Roma, ch’io non pianga la lor disgrazia, piú che s’andassero a la sepoltura, perché ne la fossa si sepelliscono i morti e ne la corte i vivi; e quel dolore, che s’averia sapendosi che un fratello fusse ne l’inferno, s’ha di coloro che vivono ne la crudeltá di cosi fatto abisso. E, per il contrario, io non sento mai ritornarlo di lá, ch’io non ne faccia quella festa che si faria d’una tua cosa uscita de le catene dei turchi e de le galee dei mori. Ed, essendo tal novella un arcivangelo, si può credere ch’io abbia allegrezza nel vedervi scampato vivo e sano fuor de l’unghie, che ci ghermiscono la servitú, per divorarsi i nostri anni con i denti de l’avarizia. Riducetevi ai servigi de la duchessa, e dilettate l’animo di colai signora con l’armonia de la musica, e messer Fortunio e me con la dolcezza de la conversazione, ché certamente l’una e l’altra vertú è suprema e naturale in voi. Dunque il piú gentile spirito che sia e la piú soave pratica che si trovi, deveva perder le grazie, che gli diede il cielo, fra la villania del mondo? Or ringraziamo Iddio, che v’ha tratto de le mani di Faraone e rcnduto al consorzio dei gentili.

Di Venezia, il io di decembre 1537.