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CCLII

AL BEVAZZANO

Si scusa d’inviare un cattivo sonetto iu onore della donna dell’amico. Ridetevi, signor messer Agostino, tanto del sonetto col qual vi rispondo, quanto io mi son maravigliato dei due con cui mi sforzate a rispondervi. Il fatto mio è un piacere, poiché senza corda confesso, circa l’ingegno, come ella sta. Non mi cavate di baie né d’una arguzietta, se volete ch’io paia un quae pars tst. Né si dubiti che, entrando io a cantar de la donna vostra, non rimanessi ne le peste, perché gli effetti amorosi non vanno in dozzina come i gesti d’Orlando. Altro è lo scrivere gli accidenti di Cupido che l’occorrenze di Marte. Le saette de l’uno non han che fare con l’asta de l’altro, se ben sono armi. Gran differenza è fra le lacrime e il sangue, ancorché quelle e questo eschino da le vene del duolo. Non è impresa da ognuno il poelizzare amando: è ben materia da molti il guerreggiar poetizzando. Né si trova altro che un Ariosto e un Dolce al mondo; e, se pur si trovano, lor danno. Or eccovi la mia ciancia.

Di Venezia, il 25 di novembre 1537. Ogni vago augel, che ha piume e vive luci, non poggia in ciel, né mira il chiaro occhio del sol. Tal io vi sembro raro, e pur Iddio nullo suo don mi ascrive. Son roco cigno, onde cantar le dive grazie non oso del vostro idol caro, e poi non va penna d’ingegno apparo del Bevazzan, che le celebra e scrive. E ben so io che la mia rima è spinta a porle in carta, aciò chi vi innamora conosca Apelle suo, che l’ha dipinta. Ma, se’l mio stll, per farvi onor, colora colei che l’alma v’ha di fuoco cinta, chi in’assicura ch’io non arda ancora?