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d’Italia d’armi e di furore; onde rimarebbero muti questi, che non si accorgono che i franciosi son baleni e tuoni, e gli spagnuoli fiamme e folgori. Certo, son pochi che sappino che la bugia è discosto da la veritá quanto l’orecchie dagli occhi; e perciò si chiacchiara a la ventura. Gran dottrina è quella di chi sa quando si dee tacere e parlare, come sapete voi; e, sapendolo, essercitate la lingua e il silenzio alora che il conoscimento e la necessitá richiede l’opera de l’una e de l’altro. Certo, colui, che non si vuol pentir d’aver parlato, non favelli, percioché i detti ritenuti ne la volontá del suon loro si conver* tono in un tacito parlamento. Io non vi sento mai formar parola oziosa, né dir cosa da esser taciuta. E cotal grazia è dono del vostro istinto naturale, percioché egli vi inclina il sermone a distinguere le ragioni de le paci e de le guerre e a la capacitá di quel che è lode e utile de la republica, ne lo imperio de la quale otteneste fino in gioventú magistrati e onori. E ben ponno le vertú vostre promettervi nel senato e nel colleggio il favore de le sue preminenze. Io, tutto astratto, ascolto come procedete ne lo esprimere le cagioni e le ragioni de le leghe e de le pratiche, che si aggirano intorno a l’importanze de l’altrui signoria. Ma, per essere il vostro divino intelletto avezzo del continuo in cosi fatti maneggi, non pensa e non dice cosa, per cui ciascuna republica e ciascun principe non giudichi che voi siate il subietto del vero governo de le republiche e dei principi. E, ciò giudicando, si ravviva la fama del raro Vicenzo Quirini, zio vostro, e il nome del chiaro Mario Giorgio, a voi suocero e padre, le singulari Eccellenzie dei quali vi hanno stabilito negli accorgimenti sopradetti, consegnando le vertú, che avete, a la caritá del comune interesse, non vetandovi perciò il comerzio de le muse, dal cui sacro coro ritraete corone e palme.

Di Venezia, il 14 di novembre 1537.