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di se medesima fa la vita, il pò conoscere nel suo gittarsi in bocca a la volontá d’una vivanda non men toscosa che vile. E pur ce ne incappa! Or Dio ci guardi da tali e da altri accidenti.

Di Venezia, il 20 di ottobre 1537.

CCXI

A MESSER BERNARDO TASSO

Discorre degli amori del Molza e propri, alludendo ad Angela Serena. Quante volte, onorato fratello, mi sono io riso e maravigliato degli intrighi venerei del Molza nostro? Io me ne son riso, vedendogli vari, e sonmene maravigliato per i miracoli che per ciò ha fatti la vaghezza del suo sacro ingegno. Io non ho mai veduto scender la neve dal cielo senza dire: — Gli amori del tale vincono il numero di queste falde, — giurando che Cupido, avendo spese per conto suo tutte le saette, era sforzato a bastonare i cori con l’arco e con la faretra. E stupiva a pensare come il gentile de l’animo di cotanto uomo, uscendo dei santi tempii e dei gran palazzi, avesse dato di petto ne le sinagoghe, impaniandosi d’una ebrea conosciuta da l’universale per ciò. Ma, ora ch’io comincio aver qualche notizia di quel che sono, mi rido e maraviglio di me stesso, perché, entrando d’un fernetico ne l’altro, dubito che i miei innamoramenti non sieno eterni. Ecco il secondo che succede al primo, e il quarto al terzo, raggnippandosi insieme come i debiti de la mia prodigalitá. Certo è che nei miei occhi abita un furor si tenero, che, traendo a sé ogni beltade, non si può mai saziare de la bellezza. E bene spesso ho dubitato che ciò non mi avenga per le bestemie dei preti; risolvendomi poi a laudarne Iddio, da che la natura piú tosto mi mostra subietto de l’amore che materia de l’odio, ringraziando la sorte, che m’ha fatto amante e non mercatante. E, se non eh’ io debbo essercitar cotal mestiero ne l’etá greve, mi terrei beato, da che il desiderio amoroso è un dilettevol tormento, e i denti de la concupiscenza trafiggono