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VI

A LO IMPIRADORE

Lo esorta a liberare Clemente VII, dopo il sacco di Roma. Egli è ben vero che la felicitá cresce con piú ventenzia che ella non comincia; e ciò si vede nc la Maestá Vostra, nel cui arbitrio la fortuna e la vertú ha posto la libertá del pontefice, non essendo ancor ben rinchiuso il carcere, del qual traeste il re, per vincerlo con la pietá, si come lo vinceste con l’arme. Veramente si confessa per ciascuno che voi séte cosa di Dio, la cui bontade vi fa essercitar la sua clemenza; perché niun altro potrebbe durare in si fatto mestiero, e sol voi avete l’animo capace a ricevere la grandezza de le sue compassioni, le quali sono i flagelli de la umiliata superbia dei perversi, che si veggon punire da la lor mansuetudine. In qual mente, in qual core, in qual pensiero, eccetto la mente, il core e il pensier vostro, saria mai caduta la volontá di liberare il suo aversario? Chi averia, se non voi, fidata la sorte sua ne le promesse, ne la instabilitá e ne l’alterezza d’un principe vinto, essendo proprio dei perdenti il gittar dietro a la vendetta l’anima e il corpo, non pure i tesori e le genti? Ha ben potuto vedere il mondo in tal atto quanto possa nel cesareo petto e la generositá de la misericordia e la sicurezza del valore. Ha compreso anco che in quella è da sperare e in questo da temere, e come non è dato a noi il poter fuggire né l’una né l’altro. Oltra di questo, dove si udí mai che nel colmo de le vittorie un uomo, salvo Carlo, riconoscesse e Iddio c se stesso? Come voi riconosciate Iddio, il sanno le grazie che per ciò gli rendete; e qual sia il conoscimento di voi medesimo, il vostro tenersi mortale lo dimostra. Quante lampe che vi accende dinanzi a la imagine del nome coiai conoscenza! Perché il riconoscere Iddio ne le felicitá è uno stabilirsi in perpetua beatitudine, e chi conosce se stesso ne le prosperitá dei desidèri