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sodisfate al costume de la vostra natura, la quale sempre si compiacque ne l’amicizia. Ed è certo che non pò sapere quel che si sia dolcezza né domestichezza di compagnia, chi non pratica con voi; e i piú grati spassi che abbiano in cotesta cittá i forestieri qualificati è lo intertenimento dei vostri piacevoli modi. Essendo cosi, non vi dovete maravigliare se io sto in continua gelosia di perdervi; e vorrei prima uscir de la mente d’un principe che di quella d’una si fatta persona. E in cotal parere concorre con meco il nostro don Antonio, ne le cui Croniche il mio nome sta in capo di tavola, ridendosi del sonetto che ammazzò il Broccardo. Ma che gli averei io fatto coi fatti, se con le parole l’uccisi? Doverebbe il mio cavalier Bucchi farne menzione negli Annali, che dite che fa, di Bologna. Sua Signoria ha tolto impresa da suo dosso, perché altro che un bolognese non sarebbe atto a scrivere i gesti di questo conte e di quello. Ora duoimi quanto mi duole il vivere di chi noi merita, ché, per non aver nuove composizioni, non posso acquetare il desiderio dei prelati e dei nobilisti, che le bramano. La vecchiaia mi impigrisce l’ingegno, e Amor, che me lo dovria destare, me lo adormenta. Io soleva fare quaranta stanze per mattina: ora ne metto insieme a pena una. In sette mattine composi i Salmi, in dieci la Cortigiana e il Marescalco, in quarantotto i due Dialoghi , in trenta la Vita di Cristo. Ho penato poi sei mesi ne l’opra de la Sirena. Io vi giuro, per quella veritá che mi guida, che, da qualche lettra in fuora, non scrivo altro. Perciò monsignor di Parenza, a cui molto debbo per la vaghezza che egli ha de le mie novelle, di Maiorica, di Santa Severina coi nipoti mi perdonino; e, tosto ch’io partorisca cosa degna di loro, subito Laveranno. Intanto bascio le mani a le Lor Signorie reverendissime. Né mi è nuovo che l’arcivescovo Cornaro e il vescovo di Vercelli tengano la corte che doverebbon tenere i cardinali, abbracciando ogni sorte di vertuosi, perché son di reale animo e d’illustre stirpe. Or raccomandatemi al buon conte Cornelio Lambertini, la cui pace ha turbata il dolce e possente desiderio di gloria, che ebbe la gioventú del figliuolo, mal cauto ne la fidanza che ai piú valorosi dimostra la guerra. Salutatemi messer Oppici