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Discorsi 195

qualificano siccome canaglia degenerata. Ma via, siamo dei forti pazienti. Pure gli stranieri di tratto in tratto sono sopraffatti dalla verità, ed escono, quando meno s’aspetta, in espressioni di maraviglia ai segni del poderoso lavorio latente, onde si rifà nelle viscere della nazione italiana la sua vita amministrativa, economica, morale, militare, politica. E gli anni, succedendosi, sbugiardano sempre più le profezie sinistre dei nostri nemici.

Il regionalismo non ha disfatto l’opera della unità, come si diceva che dovesse succedere. I commerci e le industrie fanno passi che danno nell’occhio alle potenze che ne ebbero fin qui il monopolio. E ciò malgrado i sacrifici fino all’osso ai quali dovemmo sobbarcarci. Non siamo dei falliti, come ci si gettava in faccia deridendoci: abbiamo fatto onore alla nostra firma, e riuscimmo perfino all’abolizione del corso forzoso, rimasto cancrena insanabile in paesi di secolare stabilità. Tutto si va rinnovando. Creata di pianta la rete, ormai imponente, delle nostre ferrovie, forate in più parti le Alpi, portento di questo secolo, miracolo dell’Italia rediviva. Un esercito, che può gareggiare con quelli delle grandi potenze; una marina, che, al suo nascere, vien fuori con ardimenti che fanno stupire e impensieriscono le vecchie marine di primo ordine.

E l’istruzione? È ancora un desiderio. Ma verrà anch’essa. Se tarda, è perchè è l’opera più difficile e più colossale: e quella alla quale si dovrà la trasformazione addirittura del nostro paese, non uscito veramente di minorità fino a quando rimarranno nelle coscienze le traccie della superstizione, che toglie all’uomo ogni vigoria di carattere, ogni nobiltà di aspirazione.

Anche è tuttavia da farsi intera l’opera della redenzione delle classi diseredate dalle sofferenze, che le affliggono dolorosissimamente, e le deprimono in una viltà ingiusta, più che ogni ingiustizia. Ma è ormai volere di tutti, più o meno, che si portino rimedi radicali a questo male, che turba nelle stesse sue basi la nostra