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194 | Scritti vari |
che suona ignobile e sconcia sotto le baracche della piazza delle erbe, e là mi echeggiava come la parola sublime dell’angelo della vendetta.
La fede nel bene. Ecco, come vedemmo, il segreto pel quale il pensiero e il desiderio della indipendenza e della unità d’Italia, nati secoli indietro, cresciuti lentamente prima e poi sempre più forti dopo il principio di questo secolo, e fattisi maturi quarant’anni fa, scoppiarono da ultimo con potenza irresistibile e si esternarono nel dramma maraviglioso dell’epopea di Garibaldi.
Ecco il segreto pel quale riuscimmo così a vendicare il supplizio infame dei nostri martiri, a scuotere il giogo dello straniero, a riabilitare il nome dell’Italia, a inaugurare il suo terzo risorgimento, sicchè sia di nuovo regina nell’evo moderno come lo fu una volta nell’evo antico, e un’altra ancora nell’evo di mezzo.
La fede nel bene. Ecco il segreto onde dipende la grandezza dell’avvenire, alla quale aspiriamo.
La fede paziente del bene, il quale si consegue colla perseveranza della saggia operosità. Vince il paziente operoso. L’impaziente si stanca, si dispera, si avvilisce e soccombe. La grandezza di una nazione è conquista lenta di anni e di secoli, non produzione miracolosa, istantanea, come il giardino incantato della maga delle fole fa sorgere col tocco della sua verga magica. Il moto immenso, onde una nazione si rifà in tutte le sue parti, in tutte le parti delle parti, è come quello del cielo, nel quale infinita è la possanza che lo spinge nel giro sterminato del suo tutto e pure impercettibile all’occhio è l’avanzamento delle stelle e dei pianeti nel corso segnato a ciascuno.
Lento il progresso nostro dalla nostra entrata in Roma; ma il progresso c’è. Nella nostra impazienza siamo ognora ingiusti contro noi stessi, come se non fossimo buoni a nulla. E ci pungono amaramente le beffe che ci piovono frequenti e brutali d’oltre alpi e d’oltre mare, che ci