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Discorsi | 193 |
Da Passo Corese scaglia i suoi, piovuti a seguirlo, sopra Monterotondo e lo prende il 26 in tredici ore. Il 3 novembre a Mentana è di fronte al grosso delle truppe papali. Le affronta, le incalza, le batte in fuga. Ma sopraggiunti i soldati dei chassepots, troppo ineguali sono le forze, ed è inutile che Garibaldi carichi ancora il nemico alla testa di un rimasuglio di volontarj, gridando: «Venite a morire con me!». La giornata era perduta.
Ma la sconfitta di Mentana fruttò la presa di Roma nel 1870.
Roma o morte, aveva gridato Garibaldi, Roma o morte, ripeterono gli italiani per ogni città, per ogni borgo, per ogni casa, per ogni dove. Venne il momento e l’esercito italiano deve volgere a Roma le sue bandiere, accerchiarla, sfondarne il muro a Porta Pia, ed entrarvi dalla breccia delle cannonate il 20 settembre; e Vittorio Emanuele proclamarvi in nome dell’Italia: «Ci siamo e ci resteremo».
Signori! Nel luogo della breccia, sul muro ricostruito, si legge una iscrizione. Essendo a Roma, andai a vederla; e la sua vista mi commosse assai più che quella del monumento antico di Piazza Colonna, che ricorda che gli Italiani erano padroni e vincevano in tutte le parti del mondo.
Quella iscrizione dice, che di là entrarono, a prendere possesso della loro capitale e ad abbattervi per sempre il fatale dominio del papa, soldati di ogni regione d’Italia. Ciò leggendo mi tremarono per la commozione le ginocchia sotto, mi si fece ansante il petto e grosso e difficile il respiro, e grosse lagrime mi sgorgarono dagli occhi; e, nella esaltazione dell’entusiasmo, mi pareva di vedere la breccia aperta nel momento che vi salivano questi figli di ogni angolo d’Italia; e, in mezzo, sulla cima, anche un mantovano col sacco in ispalla, col fucile nella destra, la faccia coperta di polvere e sudore, e gli occhi lampeggianti di fiera gioia. E di sentirlo che gridasse nel mio energico dialetto, con una frase potente,