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190 | Scritti vari |
Verso mezzodì Garibaldi vide che, coll’ajuto di due pezzi d’artiglieria ben collocati e a forza di ripetute cariche, qualche leggero miglioramento nella posizione di Medici erasi ottenuto; e, sapendo che la giornata doveva essere decisiva, discese il fianco opposto della montagna, lasciando sempre credere a quei di Medici, che non se ne dipartiva: e per fossi e viottoli, e sempre a piedi, senza aver preso nè un tozzo di pane nè un sorso d’acqua in tutto il giorno, arriva sulla strada che gira S. Prisco e, passando pel villaggio, muto come se disertato dalla peste, comparve a S. Maria per avere notizie di Bixio. Sopra la strada beve dell’acqua da un secchio e mangia alcuni fichi.
Il nemico avviluppa e carica da tutte le parti. I garibaldini fanno prodigi di valore. In ultimo si rovesciano disperatamente sui regi alla baionetta; e questi sostano, poi danno indietro, in ultimo fuggono in rotta, e Garibaldi scrive sopra un tamburo colla matita alle sei: «Vittoria su tutta la linea!»
Il 25 ottobre passa il Volturno ad incontrare l’esercito settentrionale vincitore di Castelfidardo che veniva da Venafro, con alla testa Vittorio Emanuele, la cui comparsa fu annunciata dalla marcia reale. Garibaldi si avanzò, levatosi il cappello, incontro a lui; e, stesagli la mano e salutatolo, alzò la voce, girando gli occhi, come chi parla alle turbe, gridando: Ecco il Re d’Italia!
E ben a ragione. Per l’Italia egli aveva conquistato la Sicilia e Napoli; mettendoli egli in questo momento nelle mani del Re, poteva ben dire: L’Italia è fatta.
Ma la parte della storia della rivoluzione italiana, nella quale la persona epica di Garibaldi si illumina della idealità più sublime, è quella che riguarda la rivendicazione di Roma dal dominio Papale, causa secolare ed infausta di ogni nostro danno, di ogni nostra ignominia.
Noi siamo a Roma per tre disfatte di Garibaldi più gloriose di qualunque vittoria. Quella del 49, quella di