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intorno a lodrisio crivelli 287

di questo contro il medesimo o ad un altro Crotti1, ma parla pure d’ingratitudine, malvagità e perfidia del Crivelli verso lo Sforza, suo signore e benefattore2, e aggiunge altrove3: «Tu [Leodrisi] ah huius (Sfortiae) conspecto universoque imperio sceleribus tuis factus es exul». Osservando come a partire dalla fine del 1463 l’umanista milanese cessasse di comparire tra i membri del Collegio de’ giureconsulti della sua città, si era conchiuso ch’egli allora morisse, ma già il Tiraboschi rilevò come questo fosse un errore: donde appare chiaramente che la cancellazione del Crivelli dovette coincidere col suo esilio. Anche riavvicinando a questi dati la lettera inedita del 17 agosto 1466, che sarà or ora riferita per intero, se ne può dedurre che Lodrisio si rese colpevole di qualche grave mancamento verso il Duca; quale però non si può determinare. Certo dovette esulare, e se più tardi rientrasse in grazia, no, neppur questo per ora si può stabilire.

IV.


Profugo da Milano, Lodrisio Crivelli trovava onesta e lieta accoglienza presso il pontefice Pio II, col quale da lungo

  1. Epist., XXVI. 1, Narra come ad una cena data da Luigi Crotti a Giovanni Zaburgada, segretario di re Alfonso, il Crivelli si empiesse tanto di cibo da vomitare a tavola. E soggiunge che il Grotti, sebbene uomo di carattere moderato, «ob tantae rei indegnitatem surgens e mensa te pluribus pugnis primo, deinde etiam fuste percussum, ex aedibus inhonestissime eiecit». E poco dopo: «Ab Zoysjo Grotti inhonestissime dopo expulsus es. non minus ob furti suspitionem, quod argenteam pateram surripuisse dicereris, quara ob spurcissimum illum vomitum». Ancora: «Nana qui falsos testes adversus Lucani Crottum, virum innocentem et bonum, instruxeras atque subornaras ad tiium periurium confirmandum». Gerto al Filelfo non s’ha da credere che in menoma parte quanto dice contro i suoi nemici; pure qualcosa tra il Crivelli e il Grotto (o i Grotti?) dovette avvenire.
  2. Epist., 1. XXV, f. 170: Petro Eutychio: «Sed quid mirum si sese in doctorem, quem perinde atque patrem colere venerarique debuerat, ingratum praestiterit, qui in principem suum, quo nihil habet liaec aetus illustrius, improbus ac perfidus videri studuit?».
  3. Epist., XXVI. 1.