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della poesia di virgilio | 503 |
non fa proposito alcuno senza il consiglio del senno paterno: da lui l’andare e lo stare: e anche quando gli Dei in visione parlano al figlio, il figlio, appena desto e levate al cielo le mani e celebrato il sacrifizio sul focolare domestico, corre al padre; e il padre riconosce il suo sbaglio, con bell’esempio di docile autorità. Il padre è che ordina la partenza, et cuncti dicto paremus ovantes. Il dolore della morte di lui non si saprebbe esprimere con più potente semplicità: nè Eleno vaticinante, allorchè m’annunziava dolori tanto terribili, questo dolore predisse a me. E non solamente allorchè l’incendio nocque alla flotta[1] ch’era omai la patria degli esuli (e la nave capitana aveva per arme alla prora i leoni di Frigia e il monte Ida, memoria gratissima a’ profughi)[2], non allora solamente il padre apparisce a Enea in visione, ma spesse altre volte, e lo invita che venga a raccogliere dall’Eliso i destini della gente italiana, illustres animas nostrumque in nomen ituras, dove il nome si sente com’aura a cui tener dietro nella via dell’onore; e sentesi come il poema nel suo concetto comprenda non Roma soltanto ma Italia tutta[3]; anzi, più che le Italiche, le umane sorti. Invocando la Sibilla a sua guida, Enea le parla d’Anchise, natique patrisque, Alma, precor, miserere: e la Sibilla mi rammenta il vaticinio dell’egloga che certamente il poeta intendeva non potersi tutto applicare al bambino di Pollione[4], egli che in tanti luoghi dimostra di tutta comprendere l’umana famiglia ne’ suoi dolorosi affetti e ne’ desiderii generosi. Più che della storia romana, il libro sesto è pieno della umana moralità e della vita futura. E non a caso dalle sedi beate il cuore d’un padre conduole ai dolori di madre che dopo molti secoli nascerà per piange il figliuolo suo giovane morto: Tu Marcellus eris. La madre, al sentire que’ versi, svenne; nè tale è il solito effetto delle lusinghe poetiche: e se questa è lusinga, non so quante volte fosse con più coscienza adulato umano dolore.