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394 la gallia togata

colla metropoli e con tutto il dominio della Repubblica, e sentirsi così prosperare la vita per molteplici vene.

L’essere stata vinta fu dunque per lei massima ventura, ove si consideri l’effetto che ne doveva uscire; ma quanto pagasse il beneficio, ne è lecito argomentarlo da quello che la sudditanza medesima costò ad altri. La storia nessun caso ha fatto dei patimenti di quei rozzi cisalpini; ma di altri popoli ci dà qualche cenno, dai quali per analogia siamo condotti a penetrare ciò che anche di loro sarà avvenuto. Ricorda, a cagion d’esempio, che dei vinti Epiroti ne furono venduti al mercato centocinquantamila; e di Sardi pure un numero così grande, che la viltà del prezzo pel quale si dovettero esitare, divenne proverbio a significar cosa che non valga una buccia. All’isola di Sicilia furono tolte le sue leggi, i magistrati, le franchigie; il territorio venduto, o affittato agli antichi padroni, coll’obbligo di pagare la decima di ogni raccolta; mentre di tutte le merci, per diritto di entrata e di uscita, esigevasi la ventesima. Inoltre fu proibito agli abitatori di acquistare fuori del territorio della loro città; ed ebbero il carico di provvedere al lusso, non di rado smodato, dei governatorinota; i quali come a volte vi si comportassero, ce lo ha dipinto Cicerone nelle verrine. Vero è che nella Cisalpina i Verri non avranno trovato molto che li tentasse; ma chi una volta si è buttato al ladro ruba anche in casa del povero, e ogni svaligiato sente il danno in ragione del suo avere. Quei sudditi provinciali che possedevano terre, venivano gravati di una imposta fondiaria, li altri di testatico (capitatio); e tutti poi dovevano contribuire all’approvvigionamento della flotta e ai quartieri d’inverno delle truppe.

Ma di tutti i pubblici carichi il più incomportabile era il modo con cui si esigevano; che lo Stato ne commetteva l’ufficio a quei pubblicani, il cui nome suonò

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  1. Atto Vannucci, St. d’Italia, T. II.