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VARIETÀ





D’una sconfitta nel Vicentino rammentata nel ix canto del Paradiso di Dante. - Lettere due di N. Tommaseo al ch. signor Fedele Lampertico.


I.


Debbo da gran tempo risposta alla domanda di Lei sul palude di Dante; ma io non potevo dire a Lei cose ch’Ella non abbia già pensate da sè, o dal sig. prof. Zanella potute sentire al bisogno. Io per me credo più o meno comuni a tutte le regioni d’Italia in antico, entrambe le forme la palude e il palude; come cera, cero, sede, seggio; anima, animo. Io non credo che Dante andasse nel suo esilio raccattando vocaboli; ma che talvolta, per meglio ritrarre le particolarità delle persone e de’ fatti, adoprasse locuzioni proprie a tale o tal dialetto, com’usa voci latine, e come fa dire a Pluto satàn aleppe. Se non fosse Gasparo Gozzi e la innata bontà del dialetto veneto, cioè della schiatta, direi che sul Veneto pesa una filologica maledizione. Al Trissino o Dressen, inventore dell’omega italiano, al Bembo legislatore della lingua, adesso monsignor Giullari aggiunge un Ghedino, veneto vissuto a’ tempi di Francesco Petrarca, legislatore anch’egli della pedanterìa, e del qual pure leggesi qualche verso non infelice in un codice che contiene i componimenti di Francesco Vannozzo, trivigiano, amico al Petrarca; del quale Vannozzo io nel milleottocenvensei pubblicai due canzoni in Padova, e poi in Firenze qualche sonetto. Da ultimo, comparirono, richia-